Nella newsletter di ottobre potrai trovare alcune sentenze in materia di diritto del lavoro.

Il Focus di questo mese è: LA DISCRIMINAZIONE PER DISABILITÀ.

 

Cliccando sui singoli link, oltre ai contenuti già presenti nell’articolo, troverai le sentenze integrali da cui sono tratti.

Buona lettura della newsletter!

Corte Cassazione ordinanza n. 18094 del 2.07.2024

La sentenza della Corte di Cassazione affronta un caso di licenziamento di un lavoratore disabile, da parte di una società. Il licenziamento è stato giustificato dall’azienda con la motivazione di “significative variazioni dell’organizzazione del lavoro” dovute all’esternalizzazione del servizio di manutenzione. La Corte d’Appello dell’Aquila aveva confermato la legittimità del licenziamento, ma il ricorrente ha contestato tale decisione. La Corte di Cassazione ha esaminato diversi aspetti legali. In primo luogo, ha ribadito che il licenziamento di un lavoratore disabile deve seguire procedure specifiche previste dalla legge n. 68/1999, che tutela i diritti dei disabili nel mondo del lavoro. La Corte ha evidenziato che, in caso di aggravamento delle condizioni di salute o variazioni significative nell’organizzazione del lavoro, è necessario accertare la compatibilità delle mansioni con lo stato di salute del lavoratore tramite una commissione medica integrata. In particolare, la sentenza ha sottolineato che il datore di lavoro non può procedere unilateralmente al licenziamento senza consultare questa commissione. È stato stabilito che la soppressione del posto di lavoro del disabile costituisce una variazione significativa dell’organizzazione del lavoro e richiede una valutazione della possibilità di reinserimento del lavoratore in altre mansioni compatibili con le sue condizioni fisiche. La Corte ha accolto i motivi di ricorso relativi alla violazione delle procedure previste dalla legge per il licenziamento dei disabili e ha ordinato un rinvio alla Corte d’Appello per una nuova valutazione, tenendo conto delle disposizioni legali specifiche.

Corte Cassazione sentenza n. 14307 del 22.05.2024

La sentenza della Corte di Cassazione affronta un caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore da parte di una società, in ragione della sua inidoneità parziale alle mansioni di guardia particolare giurata. La Corte d’Appello di Napoli aveva già riconosciuto l’illegittimità del licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore e il pagamento di un’indennità risarcitoria. Tuttavia, la questione centrale riguardava se il licenziamento potesse essere considerato discriminatorio ai sensi delle normative vigenti, in particolare in relazione alla disabilità. La Corte ha stabilito che la mancata ricollocazione del dipendente non costituiva una condotta discriminatoria, ma piuttosto un inadempimento agli obblighi di correttezza e buona fede previsti dal D.Lgs. n. 216 del 2003. Questo implica che il datore di lavoro non ha rispettato gli “accomodamenti ragionevoli” richiesti dalla legge per garantire l’uguaglianza di trattamento dei lavoratori con disabilità. La decisione ha messo in evidenza l’importanza di tali obblighi e la necessità per i datori di lavoro di dimostrare che non esistono alternative praticabili prima di procedere al licenziamento. La Corte ha accolto il primo motivo di ricorso, ritenendo che il licenziamento fosse discriminatorio e che il lavoratore avesse diritto a una tutela reintegratoria piena piuttosto che attenuata. Questo aspetto è cruciale poiché sottolinea la protezione legale accordata ai lavoratori disabili e l’importanza della loro reintegrazione nel posto di lavoro. Inoltre, la sentenza ha chiarito che le indennità devono essere calcolate tenendo conto della retribuzione globale di fatto, inclusi eventuali emolumenti aggiuntivi. In sintesi, questa sentenza rappresenta un passo significativo nella giurisprudenza italiana riguardante i diritti dei lavoratori disabili, evidenziando la responsabilità dei datori di lavoro nel garantire un ambiente lavorativo inclusivo e non discriminatorio.

Il mancato risultato non è inadempimento se il dipendente rispetta il contratto

Corte di Cassazione ordinanza n. 10640 del 19.04.2024

La pronuncia della Corte di Cassazione affronta un caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in cui la Corte d’Appello di Roma aveva confermato la reintegrazione di un lavoratore licenziato a causa di frequenti assenze per malattia. La Corte ha stabilito che il licenziamento era nullo poiché non era stato superato il periodo di comporto, ovvero il limite massimo di assenze giustificate per malattia. La Corte ha analizzato se le assenze del lavoratore, che ammontavano a 123 giorni in due anni, potessero giustificare il recesso. Si è evidenziato che le assenze erano state ripetute e adiacenti a periodi di riposo, ma la Corte ha ritenuto che il datore di lavoro non avesse dimostrato un danno concreto all’organizzazione aziendale tale da legittimare il licenziamento. La decisione della Corte d’Appello è stata quindi considerata conforme alla normativa vigente, in particolare all’articolo 2110 c.c. e all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Si ribadisce quindi l’importanza di rispettare il periodo di comporto e chiarisce che il superamento di questo limite è necessario per giustificare un licenziamento basato su assenze per malattia.

Termine ragionevole per impugnare il licenziamento in gravidanza

Corte di Giustizia sentenza 27.06.2024

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 27 giugno 2024, affronta questioni cruciali riguardanti la protezione delle lavoratrici gestanti in ambito lavorativo, in particolare in relazione al divieto di licenziamento e alla tempestività dei ricorsi legali. La Corte è stata chiamata a esaminare se le disposizioni del diritto tedesco, che richiedono alle lavoratrici di presentare ricorsi entro termini specifici per mantenere la loro protezione contro il licenziamento, siano compatibili con la Direttiva 92/85/CEE. Una lavoratrice incinta, è stata licenziata senza che il suo stato fosse noto al datore di lavoro al momento del licenziamento. Dopo aver appreso della gravidanza, la stessa ha tentato di contestare il licenziamento, ma si è trovata a dover affrontare scadenze legali che sembravano escludere la sua possibilità di ricorso. La Corte ha dovuto considerare se tali scadenze potessero ostacolare l’effettiva tutela giuridica delle lavoratrici gestanti, come previsto dalla direttiva europea. La Corte ha stabilito che le norme nazionali non devono rendere eccessivamente difficile l’accesso alla giustizia per le donne in gravidanza. In particolare, ha affermato che una lavoratrice dovrebbe poter far valere i propri diritti anche se informa il datore di lavoro della gravidanza dopo il licenziamento e oltre i termini stabiliti. Questo principio è fondamentale per garantire che le disposizioni nazionali non compromettano la protezione prevista dalla direttiva europea. In sintesi, la sentenza sottolinea l’importanza di garantire un accesso effettivo alla giustizia per le lavoratrici gestanti e stabilisce che le normative nazionali devono essere interpretate in modo da non ostacolare tale accesso. Questo rappresenta un passo significativo nella protezione dei diritti delle donne nel contesto lavorativo e rafforza il principio dell’effettività della tutela giuridica.

Permessi legge 104/1992 non vincolati all’orario di lavoro

Tribunale di Ancona sentenza del 5.06.2024

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 27 giugno 2024, affronta questioni cruciali riguardanti la protezione delle lavoratrici gestanti in ambito lavorativo, in particolare in relazione al divieto di licenziamento e alla tempestività dei ricorsi legali. La Corte è stata chiamata a esaminare se le disposizioni del diritto tedesco, che richiedono alle lavoratrici di presentare ricorsi entro termini specifici per mantenere la loro protezione contro il licenziamento, siano compatibili con la Direttiva 92/85/CEE. Una lavoratrice incinta, è stata licenziata senza che il suo stato fosse noto al datore di lavoro al momento del licenziamento. Dopo aver appreso della gravidanza, la stessa ha tentato di contestare il licenziamento, ma si è trovata a dover affrontare scadenze legali che sembravano escludere la sua possibilità di ricorso. La Corte ha dovuto considerare se tali scadenze potessero ostacolare l’effettiva tutela giuridica delle lavoratrici gestanti, come previsto dalla direttiva europea. La Corte ha stabilito che le norme nazionali non devono rendere eccessivamente difficile l’accesso alla giustizia per le donne in gravidanza. In particolare, ha affermato che una lavoratrice dovrebbe poter far valere i propri diritti anche se informa il datore di lavoro della gravidanza dopo il licenziamento e oltre i termini stabiliti. Questo principio è fondamentale per garantire che le disposizioni nazionali non compromettano la protezione prevista dalla direttiva europea. In sintesi, la sentenza sottolinea l’importanza di garantire un accesso effettivo alla giustizia per le lavoratrici gestanti e stabilisce che le normative nazionali devono essere interpretate in modo da non ostacolare tale accesso. Questo rappresenta un passo significativo nella protezione dei diritti delle donne nel contesto lavorativo e rafforza il principio dell’effettività della tutela giuridica.

Responsabile il dipendente che causa l’infortunio di un lavoratore al primo giorno

Corte di Cassazione penale sentenza n. 25078 del 26.06.2024

La sentenza riguarda un caso di lesioni colpose derivanti da un infortunio sul lavoro. L’imputato amministratore della società e un dipendente della stessa sono stati condannati per la lesione grave subita da un lavoratore somministrato, investito da un carrello elevatore guidato dal dipendente dell’azienda nel primo giorno di lavoro del somministrato. La Corte di Appello di Bari aveva confermato la responsabilità penale ma aveva dichiarato estinti per prescrizione alcune contravvenzioni riguardanti le violazioni delle norme antinfortunistiche. In appello, l’azienda aveva contestato la sentenza sostenendo che la motivazione era contraddittoria e illogica, e che la responsabilità dell’incidente dovesse essere attribuita esclusivamente al comportamento del lavoratore infortunato, piuttosto che a mancanze organizzative dell’azienda. La Cassazione ha respinto il ricorso evidenziando che la mancanza di formazione di somministrato e la carenza di segnaletica adeguata rappresentano colpe specifiche dell’imputato. La Cassazione ha ribadito che la responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro non viene meno nemmeno in presenza di comportamenti imprudenti da parte del lavoratore, se tali comportamenti sono conseguenze prevedibili della carenza di misure di sicurezza.

Jobs Act: reintegro per licenziamento senza giustificato motivo oggettivo

Corte costituzionale sentenza n. 128 del 16.07.2024

legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in particolare riguardo all’articolo 3 del decreto legislativo n. 23 del 2015. Questa norma disciplina i contratti di lavoro a tempo indeterminato, stabilendo che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore non ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro se il giudice accerta l’insussistenza del fatto che giustifica il licenziamento. Il Tribunale di Ravenna ha sollevato dubbi di legittimità costituzionale su questa disposizione, evidenziando che l’assenza di tutela reintegratoria in caso di licenziamento ingiustificato crea una disparità di trattamento tra lavoratori licenziati per motivi oggettivi e quelli licenziati per motivi soggettivi. Il giudice ha sottolineato come, in entrambi i casi, l’accertamento dell’insussistenza del fatto costitutivo del licenziamento dovrebbe comportare conseguenze sanzionatorie equivalenti. La Corte ha esaminato la questione nel contesto dei principi di uguaglianza e ragionevolezza sanciti dalla Costituzione. Ha riconosciuto che la differenza di trattamento tra le due tipologie di licenziamento potrebbe risultare irragionevole, poiché entrambi i casi presentano vizi analoghi. Inoltre, è stata messa in discussione la sufficienza dell’indennizzo monetario previsto per i lavoratori illegittimamente licenziati, evidenziando che non tiene conto delle reali difficoltà economiche e professionali che un lavoratore può affrontare dopo un licenziamento. In sintesi, la Corte Costituzionale si trova a dover bilanciare i diritti dei lavoratori con le esigenze delle imprese, ponendo l’accento sulla necessità di garantire una protezione adeguata contro i licenziamenti ingiustificati e sull’importanza di un trattamento equo per tutti i lavoratori.

Il reintegro deve avvenire nella sede di lavoro originaria

Corte di Cassazione ordinanza n. 18892 del 10.07.2024

La Corte di Cassazione, ha affrontato il tema del trasferimento del lavoratore a seguito di un licenziamento dichiarato illegittimo. Il caso in esame riguarda una società che contestava la decisione della Corte d’Appello di Roma di annullare il trasferimento di un dipendente a un’altra sede, ordinando il suo reintegro presso la sede originaria. La Corte di Appello aveva ritenuto che, in caso di reintegra dopo un licenziamento illegittimo, il lavoratore dovesse essere riammesso nella sede di lavoro originaria, salvo prova della sua impossibilità di reintegrazione. La Corte di Cassazione ha confermato questa decisione, ribadendo che, sebbene l’articolo 2103 c.c. richieda comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive per il trasferimento, in seguito a un licenziamento illegittimo il datore di lavoro ha un onere aggiuntivo: deve dimostrare l’impossibilità di reintegrare il lavoratore nella sede originaria. Questo principio si fonda sul fatto che il diritto alla reintegra impone un limite al potere di trasferimento, che deve essere esercitato in conformità con le esigenze aziendali reali e non come una misura punitiva o ritorsiva. Il primo motivo del ricorso, che contestava la necessità di dimostrare l’impossibilità di reintegrare il lavoratore nella sede originaria, è stato considerato infondato dalla Corte. La sentenza impugnata era in linea con la consolidata giurisprudenza che richiede una prova specifica dell’inutilizzabilità del lavoratore nella sede di reintegra. Il secondo motivo, relativo alla valutazione delle ragioni del trasferimento, è stato dichiarato inammissibile per la sua commistione di questioni di fatto e diritto e per l’irrilevanza rispetto alla ratio decidendi principale. In sintesi, la Corte ha riaffermato l’importanza di rispettare il diritto del lavoratore reintegrato al ripristino della sua posizione nella sede di lavoro originaria, a meno che non vi siano prove concrete che giustifichino un trasferimento in base a ragioni aziendali verificate.

Illegittimo il licenziamento per eccessive stampe punibile con sanzione conservativa

Corte di Cassazione ordinanza n. 20698 del 25.07.2024

La Corte di Cassazione, si è pronunciata su un caso di licenziamento disciplinare in cui è emerso un contrasto tra la Corte d’Appello di Roma e la Fondazione datrice di lavoro. La Corte d’Appello aveva confermato l’illegittimità del licenziamento disciplinare nei confronti di una dipendente, e aveva elevato l’indennità risarcitoria da dodici a diciotto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, ritenendo sproporzionata la sanzione espulsiva rispetto alla gravità della condotta contestata. Il contenzioso riguardava principalmente due questioni: la proporzionalità della sanzione e la tutela applicabile. La Corte d’Appello aveva stabilito che, sebbene il comportamento della lavoratrice fosse una violazione degli obblighi contrattuali, non fosse sufficientemente grave da giustificare un licenziamento, considerandolo più adeguatamente sanzionabile con misure conservative. Tuttavia, la Fondazione contestava questa valutazione, sostenendo che la Corte non aveva considerato adeguatamente i precedenti disciplinari della dipendente e che la misura dell’indennità risarcitoria fosse insufficiente. La Cassazione ha accolto il ricorso della lavoratrice riguardante la tutela applicabile, affermando che la Corte d’Appello avrebbe dovuto applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, che prevede sanzioni conservative, anziché la tutela di cui al comma 5, che prevede una tutela indennitaria più alta. La Corte ha precisato che il giudizio di proporzionalità della sanzione, compito del giudice di merito, può essere sindacato in Cassazione solo per vizi giuridici evidenti, ma non per una mera divergenza di valutazione dei fatti.

Illegittimo il licenziamento per attività incompatibili con la malattia senza prova di aggravamento

Corte d’Appello di Napoli sentenza del 4.04.2024

La sentenza della Corte di Appello di Napoli affronta una controversia riguardante un licenziamento disciplinare per giusta causa, in un contesto di malattia e infortunio sul lavoro. Il caso è emblematico delle complessità legate alla gestione delle assenze per malattia e all’uso di agenzie investigative per monitorare i dipendenti. La Corte ha esaminato se il controllo effettuato dalla società datrice di lavoro fosse legittimo e se le circostanze che hanno portato al licenziamento potessero essere considerate giustificabili. In primo luogo, la Corte ha confermato che il licenziamento non era giustificato, ritenendo che il primo giudice avesse errato nel considerare legittimo l’uso di agenzie investigative. Questo aspetto è cruciale poiché mette in discussione la privacy del lavoratore e i limiti entro cui un datore di lavoro può operare per tutelare i propri interessi. La decisione sottolinea l’importanza del rispetto delle normative sulla privacy e dei diritti dei lavoratori, specialmente in situazioni delicate come quelle legate alla salute. In secondo luogo, la Corte ha evidenziato che il comportamento del lavoratore non costituiva una violazione tale da giustificare un licenziamento. La valutazione del comportamento del dipendente deve essere effettuata con attenzione, considerando il contesto e le circostanze specifiche. La sentenza ribadisce l’importanza del principio di proporzionalità nelle sanzioni disciplinari, richiamando l’attenzione sulla necessità di bilanciare gli interessi del datore di lavoro con quelli del lavoratore. Inoltre, la sentenza ha trattato il tema degli “obblighi preparatori” e degli “obblighi di protezione” a carico del datore di lavoro. È fondamentale che le aziende rispettino le normative in materia di salute e sicurezza sul lavoro, evitando comportamenti che possano aggravare le condizioni di salute dei dipendenti. Infine, la Corte ha confermato l’importanza della tutela reintegratoria prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, evidenziando come questa misura sia fondamentale per garantire la stabilità occupazionale e la dignità del lavoratore. La decisione si inserisce in un contesto giuridico più ampio che cerca di proteggere i diritti dei lavoratori, specialmente in situazioni di vulnerabilità come quelle legate alla malattia o all’infortunio.

Assemblee sindacali in esterno

Tribunale di Bari sentenza n. 27810 del 15.06.2023

La sentenza emessa dal Tribunale di Bari riguarda una controversia tra l’Unione Sindacale di e la Società Trasporti sul tema della retribuzione per ore di partecipazione alle assemblee sindacali. L’Unione Sindacale aveva lamentato che la società non aveva integralmente retribuito i lavoratori per la partecipazione alle assemblee sindacali del 27 novembre e del 18 dicembre 2022. Il Tribunale ha accolto il ricorso, stabilendo che l’azienda aveva agito in maniera antisindacale. Il giudice ha innanzitutto accertato che la società aveva effettivamente omesso il pagamento completo delle ore per l’assemblea del 27 novembre 2022, e che non aveva retribuito affatto le ore per l’assemblea del 18 dicembre 2022, ritenendo che quest’ultima fosse stata convocata al di fuori delle disposizioni legali e contrattuali. Tuttavia, la decisione si è basata su un’interpretazione dell’art. 20 dello Statuto dei Lavoratori, che consente la convocazione delle assemblee anche al di fuori del luogo di lavoro, e obbliga il datore di lavoro a retribuire i lavoratori per le ore di partecipazione. Il Tribunale ha chiarito che la società non ha il diritto di limitare la retribuzione basandosi sul luogo di svolgimento dell’assemblea e che il diritto alla retribuzione per le assemblee sindacali è sancito dalla legge e non può essere limitato da disposizioni contrattuali. Pertanto, la condotta della società è stata giudicata antisindacale e il giudice ha ordinato il pagamento integrale delle ore di partecipazione alle assemblee e per le future assemblee sindacali. Inoltre, la richiesta di pubblicazione della sentenza sul sito della società e sui quotidiani è stata respinta, ritenendo che la sentenza fosse sufficientemente idonea a riparare il danno subito. La società è stata condannata anche a rimborsare le spese legali dell’Unione Sindacale.

File audio e privacy

Cassazione civile ordinanza n. 24797 del 16.09.2024

L’ordinanza della Cassazione affronta una questione cruciale riguardante il trattamento dei dati personali in ambito lavorativo e la legittimità delle registrazioni audio effettuate dai dipendenti. Il caso origina da un reclamo presentato dai dirigenti della Veritas Spa al Garante per la protezione dei dati personali, relativo alla richiesta di cancellazione di una registrazione audio di una riunione aziendale. Tale registrazione era stata utilizzata da alcuni dipendenti in procedimenti legali contro l’azienda. La Corte ha esaminato se il trattamento dei dati fosse avvenuto in conformità al Regolamento UE 2016/679 (GDPR). Inizialmente, il Garante aveva respinto la richiesta di cancellazione, ritenendo che il trattamento fosse giustificato da esigenze difensive. Tuttavia, il Tribunale di Venezia ha accolto il reclamo dei dirigenti, dichiarando l’illegittimità del provvedimento del Garante e ordinando la cancellazione della registrazione. Uno degli aspetti fondamentali della sentenza è la questione dell’ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva proposta dal Garante. La Corte ha stabilito che tale impugnazione è ammissibile anche quando si presenta come adesiva a un ricorso principale, sottolineando l’importanza della tutela degli interessi pubblici legati alla protezione dei dati personali. In sintesi, la Corte ha confermato che il Garante ha legittimazione ad agire in giudizio per tutelare gli interessi pubblici e per garantire l’applicazione corretta delle normative sulla protezione dei dati. La decisione evidenzia anche l’importanza di bilanciare i diritti individuali con le esigenze organizzative delle aziende, sottolineando che le registrazioni audio effettuate senza una chiara giustificazione possono violare i principi stabiliti dal GDPR.

Insegnante licenziata per le foto sui social

Corte EDU n.49014.16 del 7.05.2024

La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo affronta questioni cruciali relative alla discriminazione basata sull’orientamento sessuale e al diritto alla vita privata. La Corte ha stabilito che il licenziamento della ricorrente, una docente, era una violazione del suo diritto alla vita privata (Articolo 8) e costituiva una discriminazione (Articolo 14) in quanto basato esclusivamente sul suo orientamento sessuale. In primo luogo, la Corte ha esaminato il contesto del licenziamento, avvenuto dopo che la ricorrente era stata accusata di “propaganda di orientamenti sessuali non tradizionali” a causa di foto pubblicate su un profilo social privato. Le immagini, che mostravano affetto verso partner intimi, non erano oscene né sessualmente esplicite e non potevano essere considerate atti immorali. La Corte ha sottolineato che il gesto di mostrare il dito medio, sebbene discutibile, non dimostrava un’incompatibilità irreparabile con le funzioni di insegnante. In secondo luogo, la Corte ha criticato l’applicazione immediata della sanzione più severa senza considerare misure disciplinari alternative. Ha evidenziato che il licenziamento era stato motivato da un dossier presentato da un’organizzazione non governativa, che conteneva informazioni sulla vita privata della ricorrente e non prove concrete di comportamenti immorali. Inoltre, la Corte ha rilevato che la differenza di trattamento era basata unicamente su considerazioni relative all’orientamento sessuale della ricorrente, senza motivazioni convincenti e ponderate a giustificazione del licenziamento. Questo approccio discriminatorio contrasta con i principi di uguaglianza e rispetto dei diritti umani garantiti dalla Convenzione Europea. Infine, la Corte ha ribadito l’importanza della protezione dei diritti individuali in una società democratica e ha affermato che le azioni intraprese dalla scuola erano sproporzionate e inadeguate rispetto al contesto della vita privata della docente.

Riorganizzazione aziendale e divieto di licenziamento per causa di matrimonio

Cassazione civile ordinanza n. 14301 del 22.05.2024

La sentenza della Corte di Cassazione affronta un caso di licenziamento nullo per giustificato motivo oggettivo, evidenziando questioni cruciali riguardanti il diritto del lavoro e la protezione delle lavoratrici in stato di gravidanza o in procinto di contrarre matrimonio. Il caso coinvolge la lavoratrice licenziata dopo aver comunicato la sua imminente unione matrimoniale. La Corte d’Appello di Milano aveva già dichiarato nullo il licenziamento, ordinando la reintegrazione della lavoratrice e il pagamento di un’indennità risarcitoria. Un aspetto centrale della decisione è l’applicazione dell’articolo 35 del D.Lgs. n. 198/2006, che vieta il licenziamento per causa di matrimonio. La Corte ha confermato che la presunzione di nullità del licenziamento si applica anche nei casi in cui una lavoratrice ha comunicato il suo matrimonio, come avvenuto nel caso in esame. Questo principio è fondamentale per garantire che le donne non siano discriminate sul posto di lavoro a causa delle loro scelte personali e familiari. Inoltre, la sentenza chiarisce che le proposte di riassunzione da parte del datore di lavoro non possono essere considerate come revoca del licenziamento già intimato, a meno che non vi sia una chiara manifestazione di volontà da parte della lavoratrice. La Corte ha anche sottolineato che i redditi percepiti durante il periodo di assenza dal lavoro non devono essere considerati come compensazione per il danno subito a causa del licenziamento nullo. Infine, la decisione ribadisce l’importanza della tutela dei diritti delle lavoratrici, in particolare in relazione alla maternità e al congedo parentale, evidenziando che ogni forma di discriminazione deve essere combattuta attraverso l’applicazione rigorosa delle normative esistenti.

Licenziamento del whistleblower

Cassazione civile sentenza n. 12688 del 9.05.024

La sentenza in oggetto riguarda il licenziamento di un dirigente dell’Area Amministrazione, Finanza e Fiscale di un azienda speciale, con la quale egli impugnava il licenziamento avvenuto per presunta negligenza nella gestione di un avviso di accertamento fiscale di rilevante entità. La Corte di Cassazione, accogliendo parzialmente il ricorso ha annullato la decisione della Corte d’Appello di Napoli, rinviando la questione per un nuovo esame. Il licenziamento era stato motivato dalla presunta mancanza di cura nella gestione dell’avviso fiscale e dalla sua presunta carenza di coordinamento con i vertici aziendali. Tuttavia, il dirigente aveva sostenuto che il licenziamento era ritorsivo, collegato alle sue segnalazioni di illeciti ai vertici aziendali e alle sue denunce presso autorità competenti. La Corte d’Appello aveva ritenuto giustificata la causa del licenziamento, ma la Cassazione ha rilevato che non era stata adeguatamente considerata la natura di whistleblower delle denunce del dirigente. In particolare, la Corte di Cassazione ha criticato il fatto che la decisione della Corte d’Appello non avesse valutato sufficientemente se il licenziamento potesse essere stato motivato da ritorsioni per le sue denunce. La Cassazione ha evidenziato che le competenze del dirigente in relazione al contenzioso fiscale non erano state chiaramente definite, e la sentenza della Corte d’Appello non aveva adeguatamente esaminato se la condotta fosse stata in realtà ricollegabile alle sue segnalazioni di illeciti. Inoltre, la Corte ha sottolineato che il licenziamento doveva essere analizzato nel contesto delle sue attività di whistleblowing e che l’eventuale motivazione ritorsiva avrebbe dovuto essere considerata in dettaglio.

Ambiente di lavoro ostile

Tribunale di Cassino civile sentenza n. 330 del 9.04.2024

La sentenza del Tribunale di Cassino affronta un caso complesso di licenziamento contestato da una lavoratrice, che ha subito condizioni lavorative vessatorie e un successivo licenziamento per superamento del periodo di comporto. La ricorrente ha sostenuto che le sue assenze per malattia fossero direttamente collegate alle condotte aggressive del datore di lavoro, che avrebbero creato un ambiente di lavoro insostenibile, configurando potenzialmente il mobbing. Il Tribunale ha esaminato attentamente le prove presentate, sottolineando l’onere della prova a carico della lavoratrice per dimostrare la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale tra le sue patologie e le condotte del datore. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che non fossero emerse evidenze sufficienti per confermare le accuse di vessazioni quotidiane e aggressioni verbali da parte del datore di lavoro. Le testimonianze raccolte non hanno supportato adeguatamente le affermazioni della ricorrente, evidenziando una discrepanza tra le sue dichiarazioni e quelle dei testimoni. Un aspetto cruciale della sentenza è l’interpretazione dell’articolo 2087 c.c., che impone al datore di lavoro l’obbligo di garantire un ambiente di lavoro sicuro e salubre. La Corte ha confermato che il datore di lavoro non può essere ritenuto responsabile se non vi è prova di comportamenti dolosi o colposi che abbiano causato danni alla salute del lavoratore. Inoltre, il Tribunale ha stabilito che il licenziamento era legittimo poiché avvenuto entro i termini previsti dalla normativa vigente. In sintesi, la decisione mette in luce l’importanza della prova nel contesto delle controversie lavorative e sottolinea la necessità per i lavoratori di documentare adeguatamente le condizioni lavorative avverse. La sentenza rappresenta un esempio significativo delle sfide legali che i dipendenti possono affrontare quando cercano giustizia in situazioni di conflitto con i datori di lavoro.

Illegittimo il licenziamento, se le contestazioni sono tratte dal telepass del dipendente

Cassazione civile ordinanza n. 15391 del 3.06.2024

La sentenza della Corte di Cassazione riguarda un caso di licenziamento disciplinare di un lavoratore. La Corte d’Appello di Ancona ha accolto l’appello del dipendente annullando il licenziamento e dichiarando l’estinzione del rapporto di lavoro, con conseguente indennità risarcitoria. Il licenziamento era stato giustificato dalla società con presunti inadempimenti contrattuali del lavoratore, rilevati attraverso dati provenienti da un sistema informatico e dal telepass. Tuttavia, la Corte d’Appello ha stabilito che i dati acquisiti tramite il telepass non potevano essere utilizzati per motivi disciplinari, in quanto la società non aveva rispettato gli obblighi previsti dalla legge sulla privacy e sulla sorveglianza dei dipendenti. Inoltre, la Corte ha ritenuto che le altre contestazioni disciplinari, relative a ritardi e inesattezze nella documentazione, non configurassero un “notevole inadempimento” degli obblighi contrattuali necessari per legittimare un licenziamento. Questo ha portato alla conclusione che il recesso fosse ingiustificato e quindi annullabile. La Corte ha fatto riferimento all’articolo 4 della legge 300/1970, evidenziando i limiti all’utilizzo dei dati personali dei lavoratori e sottolineando l’importanza di una motivazione adeguata per le sanzioni disciplinari. La sentenza evidenzia l’importanza della protezione dei diritti dei lavoratori e il rispetto delle normative sulla privacy nel contesto aziendale. Essa rappresenta un precedente significativo per casi simili, stabilendo che i dati non conformi alle normative non possono essere utilizzati come base per sanzioni disciplinari.

Qual è l’inquadramento giuridico di un influencer in azienda

Tribunale di Roma sentenza n. 2615 del 4.04.2024

La sentenza del Tribunale di Roma affronta la questione della qualificazione giuridica dei contratti di influencer marketing, in particolare se tali contratti possano essere considerati come contratti di agenzia ai sensi dell’articolo 1742 c.c.. La decisione si inserisce in un contesto giuridico in evoluzione, dove il ruolo degli influencer è sempre più centrale nelle strategie di marketing delle aziende. Il Tribunale ha stabilito che i contratti di influencer marketing non possono essere ricondotti alla figura dell’agente di commercio, poiché mancano i presupposti giuridici necessari per tale inquadramento. In particolare, è stato evidenziato che gli influencer non assumono obbligazioni giuridiche stabili e non operano in una zona determinata o con una clientela specifica, elementi essenziali per qualificare un rapporto come agenziale. La sentenza sottolinea che l’attività degli influencer è caratterizzata dalla libertà e dall’autonomia nella scelta dei contenuti da pubblicare e nel modo di interagire con il pubblico. Inoltre, il compenso degli influencer può essere variabile e non necessariamente legato a provvigioni per la conclusione di contratti, ma può includere anche compensi fissi per la creazione di contenuti. Questo approccio del Tribunale riflette una comprensione più moderna e realistica delle dinamiche commerciali contemporanee, dove le interazioni avvengono prevalentemente attraverso piattaforme digitali e social media. La decisione rappresenta un importante punto di riferimento per le aziende e gli influencer, chiarendo le differenze tra i vari tipi di contratti e le relative responsabilità legali.

Tempo di lavoro e nuove procedure di timbratura

Corte di Cassazione ordinanza n. 14848 del 28.05.2024

La sentenza in esame verte su una disputa tra Telecom Italia Spa e alcuni dipendenti, relativamente al riconoscimento del tempo impiegato per accedere e uscire dalle postazioni di lavoro (login e logout) come orario di lavoro effettivo e retribuibile. La Corte d’Appello di Roma ha accolto le richieste dei dipendenti, stabilendo che tale tempo costituisce parte dell’orario di lavoro e condannando Telecom al pagamento di somme relative a questo periodo non riconosciuto, oltre alle spese di lite. Telecom ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione sollevando tre motivi di censura. Il primo motivo verte sulla violazione dell’art. 1, comma 2, lett. a) del D.Lgs. 66/2003, ritenendo che il tempo impiegato dai lavoratori tra l’ingresso in azienda e il login, e viceversa, non sia orario di lavoro perché non soggetto a potere gerarchico. Tuttavia, la Cassazione ha respinto l’argomento, ritenendo che tali operazioni siano obbligatorie e necessarie per svolgere le mansioni lavorative, come già affermato dalla giurisprudenza consolidata. Il secondo motivo di Telecom riguardava una presunta errata applicazione dell’onere della prova, sostenendo che i lavoratori non avevano adeguatamente dimostrato la durata del tragitto, mentre Telecom aveva presentato dati più specifici. Anche questo motivo è stato respinto, con la Corte che ha confermato che il tempo minimo necessario per svolgere tali operazioni è sufficiente a configurare l’orario di lavoro. Il terzo motivo concerne il mancato riconoscimento dell’indennità per il lavoro serale svolto tra le 20:00 e le 22:00. Anche questa censura è stata ritenuta infondata, in quanto la prova dell’orario di lavoro risultava chiara dai cartellini marcatempo dei lavoratori. La Corte di Cassazione ha quindi respinto il ricorso di Telecom, confermando le decisioni di merito e imponendo alla società il pagamento delle spese legali, nonché un contributo unificato.

Ambiente lavorativo stressogeno, straining

Cassazione civile sentenza n. 15957 del 7.06.2024

La sentenza in esame riguarda una controversia di lavoro in cui la ricorrente ha agito per il risarcimento dei danni derivanti da presunte vessazioni subite sul luogo di lavoro, sia da colleghi che superiori, e attribuibili al Ministero dell’Istruzione. La questione centrale verte sul mobbing e lo straining, con il primo configurato come una pluralità di comportamenti persecutori, e il secondo come una singola condotta stressogena. Tuttavia, la Corte d’Appello di Bologna ha rigettato il ricorso, ritenendo che le prove fornite dalla lavoratrice fossero generiche e insufficienti per dimostrare un intento persecutorio da parte del datore di lavoro. La ricorrente ha denunciato il mancato riconoscimento delle condotte discriminatorie, sostenendo che le sue difficoltà lavorative erano imputabili unicamente al comportamento vessatorio dei superiori. Ha inoltre contestato la sentenza del Tribunale di Forlì, che annullava il trasferimento per incompatibilità ambientale. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha riconosciuto l’errore della Corte d’Appello nel non considerare adeguatamente l’ambiente lavorativo stressogeno come un’ingiustizia e nel non condurre una ricostruzione completa dei fatti. Un punto chiave della sentenza è la distinzione tra mobbing e straining: la Cassazione ribadisce che, sebbene manchi una pluralità di atti persecutori, l’ambiente lavorativo stressogeno può comunque configurare un illecito. Inoltre, l’annullamento del trasferimento per incompatibilità ambientale e di alcune sanzioni disciplinari imposte alla ricorrente sono stati elementi non adeguatamente analizzati dalla Corte d’Appello. In conclusione, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata, rinviando il caso alla Corte d’Appello per un nuovo esame. Questo rinvio implica un riesame globale delle condizioni lavorative della ricorrente e una maggiore attenzione alle prove che dimostrano un ambiente di lavoro vessatorio e stressogeno, anche in assenza di una molteplicità di azioni persecutorie.

Licenziamento e limiti al controllo dell’investigatore

Cassazione civile ordinanza n. 17004 del 20.06.2024

L’ordinanza affronta la questione della legittimità del licenziamento di un dipendente di Rete Ferroviaria Italiana (RFI) basato su controlli investigativi, anche audiovisivi, condotti da un’agenzia esterna senza accordo sindacale. La Corte d’Appello di Roma conferma la legittimità del licenziamento, considerando validi i controlli investigativi eseguiti principalmente tramite appostamenti e osservazioni fotografiche, senza violare lo Statuto dei Lavoratori. Tuttavia, il ricorrente ha presentato dieci motivi di ricorso, lamentando principalmente l’illegittimità dei controlli audiovisivi eseguiti senza il necessario consenso sindacale, e contestando la proporzionalità della sanzione rispetto alle accuse mosse, tra cui le false timbrature e l’assenza di autorizzazione per lo svolgimento di un secondo lavoro. La Corte di Cassazione ribadisce che, sebbene l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori preveda garanzie per i lavoratori in caso di controllo audiovisivo, non tutti i controlli rientrano in questa disciplina. Infatti, nel caso specifico, i controlli non erano orientati a verificare la prestazione lavorativa, ma a proteggere il patrimonio aziendale e accertare illeciti extralavorativi, ritenendo giustificata la sorveglianza tramite agenzia investigativa. Inoltre, si chiarisce che l’obbligo di comunicare l’uso di telecamere o dispositivi di controllo ai sindacati non sussiste quando questi strumenti non invadono direttamente la dignità del lavoratore o non riguardano il luogo di lavoro. La sentenza pone l’accento sulla distinzione tra controlli leciti, volti a tutelare l’impresa da atti illeciti, e controlli sull’adempimento delle prestazioni lavorative, che restano regolati da norme più stringenti. La Cassazione, tuttavia, accoglie parzialmente le motivazioni del ricorrente in merito alla possibilità che i controlli esterni riguardanti l’adempimento del contratto lavorativo non siano legittimi, se non eseguiti direttamente dall’organizzazione interna aziendale. Con questa ordinanza, viene sottolineata la necessità di rispettare il bilanciamento tra il potere di controllo del datore di lavoro e i diritti dei lavoratori in termini di privacy e riservatezza, specialmente quando si tratta di controlli investigativi delegati a terzi.

Licenziabile il dipendente che fa ostruzionismo in azienda

Cassazione civile ordinanza n. 18296 4.07.2024

L’ordinanza della Corte di Cassazione, qui esaminata, verte su un licenziamento avvenuto per giusta causa, impugnato dal lavoratore che operava come autista presso “La Terra delle Sirene in Liquidazione Spa.” Il lavoratore era stato licenziato per non aver completato il conferimento dei rifiuti nel 2018 e per aver riportato il mezzo aziendale carico di rifiuti senza scaricarlo, giustificandosi in modo contraddittorio e invocando motivi di salute non adeguatamente dimostrati. La vicenda ha visto un primo grado favorevole al lavoratore, che aveva ottenuto la reintegrazione e il risarcimento del danno, ma successivamente la Corte d’Appello di Napoli ha ribaltato tale decisione, ritenendo il comportamento del lavoratore non semplice insubordinazione, ma un inadempimento grave che ha compromesso il rapporto fiduciario con l’azienda. La questione giuridica centrale si basa sull’interpretazione della giusta causa di licenziamento, in relazione al CCNL applicabile, il Codice Disciplinare aziendale e l’art. 2119 c.c., secondo cui il comportamento del lavoratore ha leso irrimediabilmente la fiducia necessaria nel rapporto di lavoro, non solo per il rifiuto di eseguire le disposizioni aziendali, ma anche per aver compromesso un’attività strategica per l’azienda, esponendola a possibili violazioni amministrative. La Corte di Cassazione ha confermato la correttezza della valutazione della Corte d’Appello, escludendo che il comportamento fosse limitato a una semplice insubordinazione sanzionabile con misure conservative, in quanto il comportamento ostruzionistico del lavoratore, non giustificato, ha messo in pericolo l’attività dell’azienda. La sentenza ribadisce che la gravità della condotta lavorativa, valutata nel suo contesto concreto, giustifica il licenziamento senza preavviso. Il ricorso del lavoratore è stato quindi rigettato, mentre è stato accolto quello incidentale della società riguardante la compensazione delle spese processuali, ordinando un nuovo esame su questo punto alla Corte d’Appello.

Licenziamento illegittimo per i rimborsi spesa indebiti senza dolo

Cassazione civile ordinanza n. 23053 del 23.08.2024

La vicenda giudiziaria ruota attorno al licenziamento per giusta causa di una dipendente impiegata presso Autogrill Italia Spa, a seguito della contestazione disciplinare relativa alla compilazione infedele di note spese per i rimborsi carburante, con indicazioni errate della cilindrata del veicolo e conseguente ricezione di somme indebite. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento, ottenendo inizialmente la reintegrazione nel posto di lavoro dal Tribunale di Salerno, mentre la successiva opposizione ha determinato la risoluzione del rapporto di lavoro con l’erogazione di un’indennità risarcitoria pari a venti mensilità. Il caso è giunto in Corte di Cassazione. La Corte d’Appello di Salerno aveva confermato la sentenza di primo grado, rilevando che la condotta della lavoratrice fosse riconducibile a grave negligenza, ma non a dolo, escludendo quindi la volontà di frodare la società. Tuttavia, la gravità del comportamento ha comunque giustificato una sanzione, sebbene non espulsiva, in quanto sproporzionata rispetto alla mancanza. La Corte di Cassazione ha afferato che la valutazione della gravità della condotta e della proporzione della sanzione è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito. Il comportamento negligente non si configura come tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, come richiesto per la giusta causa di licenziamento. Di conseguenza, la Corte ha confermato l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18 co. 5 della legge n. 300/1970, considerando eccessiva la sanzione del licenziamento.

Può essere licenziato il lavoratore che, durante la malattia, gioca una partita di calcio

Cassazione civile ordinanza n. 23852 del 5.09.2024

La sentenza in oggetto riguarda il licenziamento di un operaio ausiliario a seguito di una violazione degli obblighi di correttezza e lealtà. Il lavoratore, assente dal lavoro per malattia nei giorni 27 e 28 ottobre 2017, aveva partecipato a una partita di calcio, comportamento considerato in violazione dell’art. 45 del R.D. n. 148/1931, che prevede la destituzione per chi si procura indebiti vantaggi attraverso artifici. La Corte d’Appello di Napoli ha confermato la legittimità del licenziamento, respingendo il ricorso che sosteneva che la sua condotta dovesse essere valutata secondo l’art. 42 dello stesso Regio Decreto, che prevede una sanzione conservativa per la simulazione di malattia. Il lavoratore ha quindi presentato ricorso in Cassazione, contestando la proporzionalità della sanzione e l’errata interpretazione delle norme applicabili. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando che la valutazione della gravità e proporzionalità del licenziamento rientra nel giudizio di merito e che la Corte non può sostituirsi a tale valutazione, se non nei limiti della ragionevolezza. La sentenza ha sottolineato come la condotta sia stata considerata fraudolenta e pregiudizievole per il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, in quanto finalizzata non solo ad assentarsi dal lavoro, ma anche a trarre un vantaggio personale attraverso l’attività fisica in un torneo di calcio. La Corte ha inoltre chiarito che lo svolgimento di attività fisiche da parte di un lavoratore assente per malattia non è irrilevante dal punto di vista disciplinare, in quanto può compromettere il recupero fisico e ritardare il rientro in servizio. Il giudizio di fatto espresso dalla Corte d’Appello è stato ritenuto coerente con i principi generali e le norme vigenti.

È ritorsivo il licenziamento per g.m.o. intimato dopo il rifiuto del part-time?

Cassazione civile n. 18547 del 8.07.2024

Al centro della controversia vi è il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO), che l’azienda aveva giustificato con una crisi aziendale e il presunto andamento negativo del reparto di macelleria. Tuttavia, la Corte d’appello ha ritenuto che non vi fossero prove sufficienti a supportare tale crisi, ma che, al contrario, il licenziamento fosse ritorsivo, in quanto strettamente collegato al rifiuto del lavoratore di trasformare il suo contratto da full-time a part-time. La Corte Suprema, rigettando il ricorso dell’azienda, ha evidenziato che non si può sindacare in Cassazione sulle valutazioni di merito effettuate dalla Corte d’Appello, specialmente quando queste derivano da un’analisi completa delle prove documentali e contabili. Inoltre, ha sottolineato come la Corte d’Appello abbia correttamente ravvisato la natura ritorsiva del licenziamento, basandosi su una serie di elementi presuntivi, quali la contiguità temporale tra il rifiuto del part-time e il licenziamento, e l’assenza di una reale crisi aziendale. L’azienda ha cercato di sostenere che la trasformazione del contratto era necessaria per il contenimento dei costi e che il licenziamento era legittimo, ma la Corte ha rigettato tali argomentazioni, ritenendo che fossero volte solo a mascherare un comportamento ritorsivo. Il giudice ha confermato che il licenziamento ritorsivo è nullo ai sensi dell’articolo 1345 c.c., e che, in casi come questo, la tutela del lavoratore è quella reintegratoria. Infine, la Corte Suprema ha anche ribadito che il Jobs Act, recentemente modificato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 22/2024, riconosce la nullità dei licenziamenti ritorsivi, anche in assenza di una previsione espressa nella legge. Il ricorso viene quindi respinto, e la PGM Supermercati viene condannata a pagare le spese processuali.

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