Nella newsletter di febbraio potrai trovare alcune sentenze in materia di diritto del lavoro.

Il Focus di questo mese è: CONDOTTE EXTRA-LAVORATIVE GRAVI, POSSIBILE LICENZIAMENTO.

Buona lettura della newsletter!

Corte di Cassazione, sentenza 11.12.2024, n. 31866

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di un dipendente dell’Azienda Trasporti, per giusta causa. La decisione si basa su una serie di reati gravi commessi dal lavoratore, tra cui violenza sessualemaltrattamenti familiari e lesioni personali, che hanno portato a una condanna penale irrevocabile a due anni e sei mesi di reclusione. La Corte ha ritenuto che tali comportamenti, protratti nel tempo e di significativa gravità, giustificassero il licenziamento per la possibilità concreta che il lavoratore, conducente di autobus, potesse perdere l’autocontrollo, mettendo a rischio la sicurezza degli utenti del servizio. La Corte d’Appello di Milano aveva già respinto il reclamo del lavoratore confermando la sentenza di primo grado. La Corte territoriale ha sottolineato la responsabilità di AT di garantire la sicurezza e l’idoneità del personale a contatto con il pubblico, in base agli articoli 2043 e 2087 del codice civile. Inoltre, ha considerato i precedenti disciplinari del dipendente, legati a episodi di insubordinazione e perdita di controllo. Il lavoratore ha presentato ricorso per cassazione, sollevando sei motivi, tra cui la violazione dell’articolo 45 del R.D. 148/1931 e dell’articolo 27 della Costituzione, sostenendo che la sentenza d’appello non aveva valorizzato adeguatamente l’opera di reinserimento sociale e lavorativo del condannato. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che la condotta extralavorativa fosse di tale gravità da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. In conclusione, la Corte ha stabilito che il licenziamento era giustificato dalla gravità dei fatti accertati in sede penale e dalla necessità di garantire la sicurezza e la fiducia nel corretto adempimento delle mansioni lavorative. La decisione sottolinea l’importanza della condotta extralavorativa e il suo impatto sul rapporto di lavoro, soprattutto in contesti che richiedono un elevato livello di autocontrollo e rispetto verso il pubblico.

Licenziamento illegittimo: critiche pubbliche tutelate dalla libertà di espressione

Corte di Cassazione, ordinanza 21.11.2024, n. 30087

L’ordinanza offre importanti spunti interpretativi in materia di giusta causa di recesso e risarcimento danni. La controversia ruota intorno al legittimo esercizio del diritto di critica da parte del collaboratore e alla sua compatibilità con il contratto sottoscritto. La Cassazione conferma che le dichiarazioni del lavoratore, benché critiche verso il datore di lavoro, rispettavano i limiti della continenza formale e del pubblico interesse, escludendo la configurazione di una giusta causa di recesso. La sentenza valorizza il principio costituzionale della libertà di espressione e la distinzione tra obblighi contrattuali e diritti individuali, sottolineando che l’articolo 27 del contratto non imponeva un vincolo tale da privare il collaboratore del diritto di critica, purché esercitato nei limiti di correttezza. Inoltre, la Corte territoriale ha rivalutato il danno patrimoniale includendo benefit contrattuali (auto aziendale e alloggio) e compensi variabili. La decisione esclude il risarcimento per danni non patrimoniali, considerando che l’immagine professionale del lavoratore non ha subito lesioni rilevanti, dato il suo rapido ricollocamento lavorativo. Questo caso chiarisce che, pur in ambito sportivo-professionale, il diritto di critica non può essere limitato arbitrariamente dal datore di lavoro. Si rafforza, inoltre, il principio della deducibilità dell’aliunde perceptum, ma non dell’aliunde percipiendum, richiedendo che il datore di lavoro fornisca specifiche prove sul punto.

Malattia: il datore può contestare i certificati senza querela di falso

Corte di Cassazione, sentenza 27.11.2024, n. 30551

La sentenza affronta il tema della legittimità del licenziamento per presunta simulazione della malattia e della sua compatibilità con il rispetto degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore. In particolare, la Suprema Corte censura l’operato della Corte d’Appello di Roma per non aver valutato adeguatamente il profilo della simulazione della malattia, ritenendo erroneo l’assunto secondo cui la contestazione della diagnosi richiederebbe una querela di falso del certificato medico. La Corte d’Appello aveva giudicato illegittimo il licenziamento, considerando che le attività fisiche svolte dalla dipendente non avevano pregiudicato la guarigione, applicando la tutela reintegratoria ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. La Cassazione ha accolto il secondo motivo di ricorso del datore di lavoro, ribadendo che il certificato medico è un atto pubblico che attesta fatti fino a querela di falso, ma non vincola il giudice sui giudizi valutativi del medico. Il datore può provare la simulazione o l’aggravamento della malattia con altri mezzi probatori, senza necessità di querela. È stato riaffermato che il lavoratore è tenuto a osservare condotte atte a favorire la guarigione e non può svolgere attività che possano pregiudicare il rientro al lavoro. Tuttavia, la Cassazione richiama la necessità di un’analisi concreta e puntuale del caso. Il rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione sottolinea la centralità del ruolo del giudice di merito nell’accertamento dei fatti, compresa la verifica della genuinità della patologia contestata. In conclusione, la sentenza evidenzia l’importanza di bilanciare la tutela del lavoratore in malattia con i diritti del datore di lavoro a contestare eventuali abusi. Questo equilibrio deve fondarsi su un’attenta analisi probatoria e sul rispetto dei principi di buona fede e correttezza contrattuale.

Malattie tabellate (benzene): il lavoratore deve provare esposizione e nesso causale, anche con consulenza tecnica

Corte di Cassazione, ordinanza 25.11.2024, n. 30269

La Cassazione Civile, affronta una questione cruciale sul rapporto tra esposizione professionale e malattia tabellata, chiarendo importanti principi sul nesso causale e sull’onere probatorio. La causa trae origine dalla domanda presentata dalla moglie di un operaio deceduto per leucemia mieloide, che attribuiva la malattia all’inalazione di benzene durante i lavori di asfaltatura. La Corte d’Appello di Bologna aveva escluso il nesso causale, basandosi su una consulenza tecnica che negava l’utilizzo del benzene in tali attività. La ricorrente contestava la decisione su due fronti: la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e l’omessa valutazione di prove testimoniali che confermavano l’esposizione al benzene. La Cassazione respinge entrambe le censure. La Corte ha chiarito che, sebbene le malattie tabellate godano di una presunzione di causalità, questa può essere superata qualora l’istituto assicurativo (Inail) dimostri l’assenza di esposizione a fattori nocivi. Nel caso specifico, la consulenza tecnica ha escluso l’utilizzo del benzene nei lavori stradali, rendendo infondata la pretesa. Un aspetto centrale è l’applicazione rigorosa dell’onere probatorio. La Corte ha ribadito che spetta al lavoratore o ai suoi eredi dimostrare la concreta esposizione al rischio professionale. In questo caso, la prova testimoniale è stata ritenuta insufficiente perché non adeguatamente documentata, violando il principio di autosufficienza del ricorso. Inoltre, la decisione di fondarsi sulla consulenza tecnica è stata giudicata conforme al prudente apprezzamento probatorio. Infine, la Cassazione sottolinea che l’esclusione del nesso causale non può essere infirmata da generiche contestazioni sull’interpretazione delle prove. Questa sentenza ribadisce l’importanza di un approccio probatorio rigoroso nelle controversie previdenziali, confermando il ruolo centrale della consulenza tecnica per accertare la sussistenza del rischio lavorativo.

Obbligo di monitorare l’orario dei collaboratori domestici

Corte di giustizia, sentenza 19.12.2024, causa C‑531.23

La sentenza della Corte di Giustizia europea C-531/23 affronta un importante caso relativo ai diritti dei lavoratori domestici in Spagna. La questione centrale riguarda l’obbligo di registrazione dell’orario di lavoro per i collaboratori domestici, precedentemente esenti da tale adempimento. La Corte ha stabilito che l’esenzione viola la direttiva 2003/88/CE e l’articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali, poiché impedisce ai lavoratori di determinare oggettivamente le proprie ore lavorate. La pronuncia si basa sulla giurisprudenza precedente (sentenza CCOO del 2019) e sottolinea la necessità di proteggere i lavoratori, considerati parte debole nel rapporto di lavoro. Inoltre, la Corte evidenzia un potenziale profilo di discriminazione indiretta di genere, considerando che il 95% dei collaboratori domestici sono donne. La sentenza impone quindi agli Stati membri di garantire un sistema di misurazione dell’orario di lavoro che consenta ai lavoratori domestici di tutelare i propri diritti, compresi i periodi minimi di riposo e il limite massimo settimanale di lavoro.

Lavoro domenicale: compensazione retributiva anche senza contratto collettivo

Corte di Cassazione, sentenza 10.12.2024, n. 31712

La sentenza affronta la questione del trattamento economico per i lavoratori turnisti impiegati in giorni domenicali, confermando la necessità di un “quid pluris” compensativo per il sacrificio sostenuto. La Corte ha sottolineato che il lavoro domenicale, anche in caso di riposo compensativo in un giorno diverso, genera disagi che incidono su interessi personali, familiari e sociali. Tale compensazione, secondo i giudici, non può limitarsi al solo riposo compensativo, ma deve includere benefici supplementari, economici o di altra natura. L’interpretazione del CCNL Multiservizi da parte della società è stata ritenuta erronea. La Corte ha ribadito che la contrattazione collettiva non esclude il diritto dei lavoratori a maggiorazioni o compensazioni per la penosità del lavoro domenicale. La decisione si allinea con precedenti sentenze che sanciscono il principio di una tutela ulteriore per i lavoratori impiegati in giornate festive. La società ricorrente ha tentato di argomentare che i vantaggi contrattuali esistenti, incluso il riposo compensativo, fossero sufficienti a compensare il disagio, ma la Corte ha evidenziato come tali benefici siano privi di quel valore aggiunto necessario a bilanciare il sacrificio richiesto. Inoltre, il metodo di valutazione equitativa del danno, adottato dalla Corte d’Appello, è stato confermato come legittimo. Tale metodo, basato sull’art. 1226 c.c., non può essere oggetto di revisione se non in presenza di evidenti errori logici o contraddizioni. La sentenza rafforza l’importanza della protezione dei diritti dei lavoratori nel rispetto dei principi costituzionali, con particolare riferimento agli articoli 36 e 2109 del codice civile.

Licenziamento illegittimo per il lavoratore in malattia sorpreso a cantare al piano bar

Cassazione civile, ordinanza 29.11.2024, n. 30722

La sentenza in questione riguarda un caso di licenziamento disciplinare di un dipendente, A.A., da parte della X Spa. Il lavoratore era stato sanzionato per aver utilizzato permessi ex legge n. 104/1992 per attività personali e per aver svolto un’altra attività lavorativa durante un periodo di malattia. La Corte di Appello di Roma aveva confermato la decisione del Tribunale, dichiarando il licenziamento illegittimo e condannando la società alla reintegra del lavoratore e al pagamento di un’indennità risarcitoria. La Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso della X, confermando la sentenza di secondo grado. La Cassazione ha ritenuto che il comportamento del lavoratore non configurasse un abuso del diritto ai permessi e che le condotte durante la malattia non fossero incompatibili con la sua condizione di salute. Inoltre, ha stabilito che le azioni del lavoratore non giustificavano la destinuzione, ma solo sanzioni conservative.La sentenza si basa sul principio che per configurare l’abuso del diritto ai permessi, deve mancare completamente il nesso causale tra l’assenza dal lavoro e l’assistenza al disabile. Inoltre, la Corte ha rilevato che l’attività lavorativa svolta durante la malattia non era pregiudizievole per la guarigione del lavoratore, essendo considerata un’attività ricreativa. La Cassazione ha anche chiarito che il datore di lavoro non ha dimostrato l’incompatibilità dell’attività svolta con la ripresa psico-fisica del lavoratore. Infine, la sentenza conferma l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata in quanto le condotte del lavoratore erano punibili con sanzioni conservative.

Diffamazione su Facebook: no al licenziamento

Suprema Corte di cassazione, ordinanza 27.11.2024, n. 30558

La sentenza in questione riguarda un caso di licenziamento di una dipendente di X BANCA Spa, avvenuto il 26 febbraio 2021. La lavoratrice aveva pubblicato un post su Facebook contenente espressioni offensive e diffamatorie nei confronti di un ex coniuge di un dipendente della banca, condotta punita in sede penale come reato di diffamazione pluriaggravata. La Corte d’Appello di Bologna ha confermato la decisione del giudice di primo grado, dichiarando il licenziamento illegittimo poiché la condotta extralavorativa non aveva alcun collegamento rilevante con il rapporto di lavoro né incideva sulla sua funzionalità. Pertanto, è stata applicata la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, comma 4, della legge n. 300 del 1970.La banca ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che la Corte territoriale non avesse considerato correttamente la norma contrattuale che consente al datore di lavoro di attendere le risultanze del procedimento penale. Tuttavia, il ricorso è stato dichiarato inammissibile poiché le censure non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata e mirano a una rivalutazione dei fatti, non consentita in sede di legittimità. La Corte ha ribadito che la valutazione sulla funzionalità del rapporto di lavoro è sottratta al suo sindacato. La decisione si basa sul fatto che la condotta della lavoratrice non ha compromesso il vincolo fiduciario né ha influenzato negativamente il suo adempimento lavorativo. La banca è stata condannata al pagamento delle spese processuali. In sintesi, la sentenza evidenzia l’importanza di valutare se le condotte extralavorative abbiano un impatto significativo sul rapporto di lavoro, e ribadisce che la Corte di Cassazione non può rivalutare i fatti in sede di legittimità.

Indennità di mensa: non retributiva, salvo diversa previsione CCNL

Cassazione civile, ordinanza 10.12.2024, n. 31719

La sentenza in questione riguarda un caso di differenze retributive e trattamento di fine rapporto (TFR) per un lavoratore che ha prestato servizio come infermiere professionale presso un ospedale. La Corte d’Appello di Bari aveva condannato l’ospedale al pagamento di una somma a titolo di differenze retributive, riducendo il calcolo effettuato dal Tribunale. La Corte ha considerato le competenze per lavoro straordinario e altre prestazioni ai fini del calcolo del TFR, escludendo emolumenti di incentivazione e indennità di mensa per il periodo successivo al 2002, in base al CCNL Comparto Sanità. L’ospedale ha presentato ricorso in Cassazione, contestando la valutazione di alcuni elementi probatori e la non applicazione di un giudicato esterno. La Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso, rigettando la maggior parte delle censure e cassando la sentenza solo per quanto riguarda l’inclusione dell’indennità di mensa nel calcolo del TFR.La sentenza si basa su una complessa interpretazione delle norme contrattuali e legislative, sottolineando l’importanza della disciplina contrattuale collettiva nel definire le voci retributive utili per il calcolo del TFR. La Corte ha anche chiarito che il calcolo delle differenze retributive deve avvenire al lordo delle imposte, salvo il computo di quanto già versato dal datore di lavoro come sostituto d’imposta. La decisione evidenzia la necessità di una precisa applicazione delle norme contrattuali e legislative per evitare errori nel calcolo del TFR.Inoltre, la Cassazione ha ribadito che l’indennità di mensa non è considerata retribuzione ai fini del TFR, salvo diversa previsione contrattuale. Questo principio è stato confermato dalla giurisprudenza di legittimità, che ha escluso la natura retributiva dell’indennità di mensa in assenza di specifiche disposizioni contrattuali.Infine, la sentenza sottolinea l’importanza della corretta applicazione dei principi di dirittoe della giurisprudenza consolidata per garantire una giusta e coerente interpretazione delle norme in materia di lavoro.

Chirurgo escluso deve provare il mobbing

Cassazione civile, ordinanza 12.12.2024, n. 31910

La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 31910 del 12 dicembre 2024, riguarda il caso del dott. A.A., un medico chirurgo che ha denunciato comportamenti discriminatori e vessatori da parte dei responsabili dell’unità operativa complessa di chirurgia generale dell’ospedale in cui lavorava. Il dott. A.A. ha lamentato la sistematica esclusione dalle liste dei chirurghi di sala operatoria, l’impiego come primo operatore solo in interventi di scarsa o media difficoltà, l’esclusione dalle liste operatorie nei giorni di programmazione straordinaria e l’assegnazione a turni di pronta disponibilità notturna con bassa frequenza di interventi urgenti. Il Tribunale di Cassino, con sentenza n. 288/2016, ha accolto la domanda del dott. A.A., dichiarando l’illegittimità del comportamento mobbizzante della ASL di Frosinone e condannando la stessa al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali. Tuttavia, la Corte d’Appello di Roma ha riformato integralmente la sentenza di primo grado, respingendo tutte le richieste del dott. A.A., sostenendo che non vi fosse stata una esclusione mirata del medico dagli interventi chirurgici e che la distribuzione degli stessi fosse stata non paritaria ma non discriminatoria. La Corte di Cassazione, infine, ha dichiarato inammissibile il ricorso del dott. A.A., confermando la decisione della Corte d’Appello. La Corte ha rilevato che il ricorrente, pur denunciando la violazione di plurime disposizioni di legge e contrattuali, mirava sostanzialmente a censurare la ricostruzione fattuale compiuta dal giudice di merito. La Corte ha inoltre evidenziato che le scelte aziendali erano state condizionate da una maggiore fiducia nei confronti di alcuni medici del reparto e non da una volontà di mortificare la professionalità del dott. A.A. La motivazione della Corte d’Appello è stata ritenuta priva di incoerenze e illogicità, e il ricorso è stato dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di legittimità.

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