Nella newsletter di marzo potrai trovare alcune sentenze in materia di diritto del lavoro.

Il Focus di questo mese è: Congedo parentale e licenziamento per abuso del diritto.

Buona lettura della newsletter!

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente ANAS, il quale, durante il periodo di congedo parentale retribuito, aveva svolto un’attività lavorativa di compravendita di automobili, in contrasto con le finalità dell’istituto. Il lavoratore contestava la validità delle prove acquisite tramite un’agenzia investigativa e la proporzionalità della sanzione. Tuttavia, i giudici hanno ritenuto che l’attività sistematica e continuativa svolta dall’ex dipendente fosse incompatibile con l’obbligo di dedicare tempo ed energie alla cura del minore. La Corte ha anche chiarito che il congedo parentale è un diritto potestativo, che impone un sacrificio organizzativo al datore di lavoro e alla collettività, giustificando un controllo rigoroso sul suo utilizzo. Il licenziamento è stato ritenuto proporzionato, poiché la condotta violava il principio di buona fede e aveva un disvalore sociale. La Cassazione ha respinto il ricorso, confermando la sanzione e la condanna del lavoratore al pagamento delle spese legali. La sentenza ribadisce che l’abuso del congedo parentale può integrare una giusta causa di licenziamento, indipendentemente dalla compatibilità tra attività lavorativa e assistenza al minore.

Protezione dei dati nel rapporto di lavoro: la sentenza della Corte di Giustizia UE

Corte di giustizia, sentenza del 19.12.2024 causa n. C‑65.23

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza del 19 dicembre 2024, ha chiarito importanti principi in materia di trattamento dei dati personali dei lavoratori, nell’ambito del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (RGPD). Il caso riguardava un dipendente tedesco che contestava il trasferimento dei propri dati verso gli Stati Uniti da parte del datore di lavoro, sostenendo che il trattamento era illecito e chiedendo un risarcimento per danno morale. La Corte ha stabilito che gli Stati membri possono adottare norme specifiche per il trattamento dei dati nel rapporto di lavoro, ma queste non possono derogare ai principi fondamentali del RGPD. In particolare, ogni trattamento deve rispettare i principi di necessità, minimizzazione e trasparenza, anche se basato su un contratto collettivo. La decisione rafforza la protezione dei lavoratori, stabilendo che i giudici nazionali devono poter esercitare un controllo giurisdizionale completo sulla legittimità dei trattamenti. Questo implica che, anche in presenza di accordi aziendali, i datori di lavoro devono sempre garantire che il trattamento dei dati sia strettamente necessario e conforme ai principi generali del RGPD.

Licenziamento e buona fede nei contratti a termine

Tribunale di Roma, sentenza del 21.01.2025, n. 662

La sentenza del Tribunale di Roma affronta un caso di licenziamento anticipato di un lavoratore con contratto a tempo determinato. Il ricorrente ha contestato la risoluzione del rapporto prima della scadenza naturale, sostenendo che ciò era illegittimo e chiedendo reintegra e risarcimento. Tuttavia, il giudice ha chiarito che il contratto si è comunque concluso nella data prevista e che la cessazione del rapporto non può essere considerata un licenziamento anticipato. Ciò che emerge con forza nella decisione è il ruolo della buona fede contrattuale. Il datore di lavoro, pur non essendo obbligato a trasformare il contratto a tempo determinato in uno a tempo indeterminato, ha comunque il dovere di comportarsi in modo corretto e non discriminatorio. In questo caso, il mancato rinnovo è stato influenzato dalla richiesta del lavoratore di fruire di permessi previsti dalla legge (Legge 104/92 e permessi genitoriali). Questo comportamento datoriale è stato ritenuto illecito, in quanto contrario ai principi di correttezza e buona fede previsti dall’art. 1175 c.c. Il Tribunale ha quindi riconosciuto un risarcimento danni al lavoratore, pari a tre mensilità dell’ultima retribuzione, con interessi e rivalutazione. La decisione sottolinea l’importanza della lealtà nei rapporti di lavoro, stabilendo che il rifiuto di trasformare un contratto solo perché il dipendente ha esercitato un proprio diritto legittimo può comportare una sanzione economica.

Lavoro subordinato e differenze retributive: condanna parziale del datore di lavoro

Tribunale di Napoli, sentenza del 23.01.2025, n. 363

La sentenza del Tribunale di Napoli Nord riconosce la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, stabilendo che il lavoratore ha effettivamente prestato servizio a tempo pieno, nonostante fosse formalmente inquadrato con un contratto part-time. Il ricorrente ha dimostrato di aver lavorato per un numero di ore superiore rispetto a quanto previsto dal contratto, ma non ha fornito prova rigorosa dello svolgimento di lavoro straordinario oltre il limite delle 40 ore settimanali. Di conseguenza, il giudice ha escluso il diritto alle differenze retributive per straordinari non provati, così come l’indennità sostitutiva delle ferie non godute, ritenendo non sufficienti le prove offerte. Tuttavia, la società convenuta, rimasta contumace, è stata condannata al pagamento della somma di 52.849,53 euro a titolo di differenze retributive ordinarie e TFR, oltre interessi e rivalutazione. La decisione ribadisce il principio secondo cui spetta al lavoratore fornire prova puntuale del proprio orario effettivo e del mancato godimento di diritti contrattuali, non potendosi basare su mere dichiarazioni generiche. Le spese processuali sono state compensate per metà, in ragione dell’accoglimento parziale della domanda.

Rigetto della domanda per carenza di prova

Tribunale di Verona, sentenza del 23.01.2025, n. 27

La sentenza del Tribunale di Verona rigetta integralmente le domande della lavoratrice per mancanza di prove adeguate a dimostrare il proprio inquadramento superiore e il diritto alle differenze retributive richieste. Il giudice ha ritenuto insufficienti le allegazioni istruttorie, sottolineando come il solo riconoscimento dell’invalidità dell’assistita non fosse sufficiente a provare la sua non autosufficienza, necessaria per ottenere l’inquadramento contrattuale rivendicato. La ricorrente non ha fornito dettagli specifici sulle mansioni svolte né sugli orari di lavoro, rendendo impossibile verificare l’effettiva esecuzione di straordinari e l’attribuzione del livello CS previsto dal C.C.N.L. per assistenza a persone non autosufficienti. Inoltre, le prove testimoniali proposte sono state giudicate non pertinenti, in quanto si limitavano a confermare la coabitazione con l’assistita senza chiarire le modalità concrete della prestazione lavorativa. I convenuti, eredi dell’ex datrice di lavoro, hanno contrastato la richiesta affermando che il rapporto era regolare, con un orario part-time e ampia libertà della lavoratrice nella gestione del proprio tempo. Hanno anche eccepito che lo stipendio fosse conforme alle previsioni contrattuali e che non vi fossero state prestazioni aggiuntive non retribuite. Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale ha confermato la decisione istruttoria che negava l’ammissione delle prove testimoniali e ha dichiarato il ricorso infondato. La lavoratrice è stata condannata al pagamento delle spese legali per un importo complessivo di €5.500, comprendente i costi sostenuti sia dai convenuti che dall’INPS, chiamato in causa ingiustificatamente.

Licenziamento e Controlli Difensivi: Limiti e Tutele

Corte di Cassazione, ordinanza del 13.01.2025, n. 807

La Corte di Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento di un dirigente, stabilendo che i controlli difensivi effettuati dal datore di lavoro erano in contrasto con l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, nella versione applicabile all’epoca. Secondo la giurisprudenza consolidata, tali controlli sono legittimi solo se finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o alla prevenzione di illeciti, ma devono garantire un bilanciamento tra le esigenze aziendali e il diritto alla riservatezza del lavoratore. Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Milano, in sede di rinvio, ha confermato la decisione di primo grado, ritenendo che i controlli tecnologici della società fossero invasivi e non proporzionati, violando le tutele previste dalla normativa. La Cassazione, aderendo a questo orientamento, ha respinto il ricorso del datore di lavoro, condannandolo al pagamento di indennità supplementare, indennità sostitutiva del preavviso e alla relativa incidenza sul trattamento di fine rapporto. La decisione ribadisce l’importanza di criteri stringenti nell’utilizzo dei controlli tecnologici sui dipendenti e sottolinea che un fondato sospetto non giustifica automaticamente l’adozione di strumenti invasivi. Pertanto, il datore di lavoro deve sempre operare nel rispetto della normativa vigente, bilanciando il proprio interesse con il diritto del lavoratore alla dignità e alla riservatezza.

Licenziamento e periodo di comporto: tutela del lavoratore

Corte di Cassazione, ordinanza del 9.01.2025, n. 463

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Milano, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto di un lavoratore affetto da malattia professionale. La questione centrale riguarda l’interpretazione della disciplina contrattuale del comporto nel settore metalmeccanico, che collega la conservazione del posto alla percezione dell’indennità INAIL per inabilità temporanea, senza richiedere la prova di una responsabilità datoriale ai sensi dell’art. 2087 c.c. La Cassazione ha respinto il ricorso del datore di lavoro, evidenziando che il CCNL applicabile stabilisce che il lavoratore conserva il posto per l’intero periodo coperto dall’indennità per malattia professionale. Non è dunque necessaria la dimostrazione di una colpa del datore, ma solo il riconoscimento della natura professionale della patologia da parte dell’INAIL. In questo caso, il lavoratore aveva fornito prova di tale riconoscimento attraverso certificati e buste paga, mentre la società non aveva prodotto elementi contrari. Il datore di lavoro ha tentato di fondare il ricorso sulla mancata considerazione di prove testimoniali e su una sentenza precedente che escludeva la responsabilità per mobbing, ma tali argomentazioni sono state ritenute irrilevanti. La Corte ha chiarito che il contratto collettivo costituisce fonte normativa autonoma rispetto alla disciplina generale del comporto prevista dal codice civile e che il suo contenuto va rispettato. La decisione ribadisce un principio fondamentale: nel caso di malattia professionale, la disciplina del comporto dipende unicamente dall’erogazione dell’indennità INAIL e non dalla dimostrazione di un illecito datoriale. Questa interpretazione tutela il lavoratore da licenziamenti ingiustificati basati su una durata della malattia non imputabile a sua colpa e rafforza il valore vincolante della contrattazione collettiva in materia di tutela della salute.

Licenziamento e obbligo di repechage: la decisione della Cassazione

Corte di Cassazione, ordinanza del 20.01.2025, n. 1364

La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento di un lavoratore per giustificato motivo oggettivo, rigettando il suo ricorso. La vicenda nasce dal recesso attuato da un’azienda nei confronti di un responsabile vendite operante in Brasile. La difesa del lavoratore contestava sia la corretta selezione del personale licenziabile sia l’onere probatorio relativo alla possibilità di ricollocazione (c.d. repechage). Dopo una lunga battaglia giudiziaria, il caso è arrivato fino alla Cassazione, che ha ribadito due principi chiave: spetta al datore di lavoro dimostrare l’inesistenza di posizioni alternative disponibili, e l’equivalenza professionale non si valuta solo sulle mansioni effettivamente svolte, ma sulle competenze complessive. Nel riesame, la Corte d’Appello ha ritenuto provata l’assenza di posti vacanti e ha escluso che il lavoratore potesse essere comparato a un altro dipendente (assunto mesi prima del licenziamento), ritenendo le loro professionalità non fungibili. La Cassazione ha condiviso tale impostazione, chiarendo che il giudice di merito può valutare i fatti e il materiale probatorio per stabilire la correttezza del licenziamento. La decisione sottolinea l’importanza di un’adeguata prova da parte del datore di lavoro, ma al tempo stesso conferma che il tribunale non può imporre la creazione di nuove posizioni per il mantenimento in servizio del lavoratore. La condanna al pagamento delle spese processuali chiude definitivamente la vicenda, confermando la linea rigorosa della Cassazione nel bilanciamento tra esigenze aziendali e tutela del lavoratore.

Sicurezza sul lavoro e responsabilità del committente

Corte di Cassazione penale, sentenza del 13.01.2025, n. 1223

La Corte di Cassazione ha confermato l’assoluzione di due imprenditori accusati di aver violato le norme sulla sicurezza sul lavoro, con conseguente lesione grave di un lavoratore. Il caso riguardava la mancata nomina del coordinatore per la sicurezza in un cantiere con più imprese esecutrici. La Cassazione ha ribadito che l’assenza di una regola cautelare violata e la mancata dimostrazione di un nesso causale tra la condotta degli imputati e l’infortunio giustificano l’assoluzione. La decisione conferma che la responsabilità del committente nella scelta dell’appaltatore non può essere presunta, ma deve basarsi su elementi concreti.

NASpI e Lavoro Subordinato: Restituzione Incentivo

Corte di Cassazione civile, sentenza del 21.01.2025, n. 1445

La sentenza in esame affronta il tema della restituzione dell’incentivo all’autoimprenditorialità (NASpI anticipata) in caso di instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso dell’INPS, ritenendo che la Corte d’Appello abbia erroneamente ammesso in appello una nuova prospettazione del caso. In primo grado, il lavoratore aveva sostenuto l’occasionalità del lavoro subordinato, mentre in appello aveva contestato la natura stessa del rapporto, qualificandolo come autonomo. La Cassazione sottolinea che la simulazione del rapporto di lavoro non è opponibile all’INPS, terzo rispetto al contratto, che ha fatto affidamento sull’apparenza creata. La Corte ribadisce che l’INPS non è tenuto a indagare sulla reale natura del rapporto, ma può basarsi sull’apparenza formale dello stesso per richiedere la restituzione dell’incentivo.

Licenziamento e Disabilità: Onere della Prova

Corte di Cassazione civile, ordinanza del 9.01.025, n. 460

La sentenza in oggetto esamina un caso di licenziamento di una dirigente affetta da disabilità, sollevando questioni relative alla discriminazione e all’onere della prova. La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della lavoratrice, ritenendo che la Corte d’Appello abbia erroneamente valutato le circostanze e l’onere probatorio in materia di discriminazione. In particolare, la Cassazione evidenzia che la Corte territoriale non ha considerato adeguatamente se il licenziamento, pur motivato da ragioni organizzative, potesse celare una discriminazione legata alla disabilità della lavoratrice, soprattutto alla luce del fatto che la lavoratrice aveva subito un grave infortunio e le era stato riconosciuto l’handicap grave ai sensi della legge 104/1992. La Corte sottolinea, inoltre, che la lavoratrice aveva allegato elementi idonei a far presumere un trattamento discriminatorio.

Permessi Legge 104: Abuso del Diritto

Corte di Cassazione civile, ordinanza del 17.01.2025, n. 1227

La sentenza in esame verte sull’uso dei permessi ex legge 104/1992 per l’assistenza a familiari disabili e sulla configurabilità dell’abuso del diritto. La Corte di Cassazione accoglie parzialmente il ricorso del lavoratore, evidenziando che la Corte d’Appello ha errato nel valutare il profilo non solo quantitativo, ma anche qualitativo dell’assistenza prestata. La Cassazione sottolinea che l’assistenza non si limita alle sole prestazioni dirette, ma include anche attività complementari e accessorie necessarie per rendere l’assistenza fruttuosa. Per configurare un abuso, è necessario valutare sia l’assenza di una funzione legata allo scopo del diritto, sia l’intenzione di pregiudicare interessi altrui.

Demansionamento: Accertamento e Risarcimento

Corte di Cassazione civile, ordinanza del 10.02.2025, n. 3400

La sentenza esamina il caso di un demansionamento di un dipendente di Telecom Italia Spa, inquadrato al V livello, e il conseguente risarcimento del danno alla professionalità. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Telecom Italia, confermando la decisione della Corte d’Appello di Milano. Quest’ultima aveva accertato che le mansioni effettivamente svolte dal lavoratore non corrispondevano al suo livello di inquadramento, configurando un demansionamento. La Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito, che ha comparato le mansioni svolte in concreto con le qualifiche previste dal contratto collettivo, e ha adeguatamente motivato la quantificazione del danno.

Indennità Vestizione: Onere della Prova a Carico del Lavoratore

Corte di Cassazione civile, ordinanza del 18 .02.2025, n. 4249

La Corte di Cassazione, si è pronunciata in merito al diritto all’indennità di vestizione per un infermiere, ribadendo un principio fondamentale. La Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, sottolineando che, in assenza di una specifica disciplina contrattuale o aziendale, spetta al dipendente dimostrare di aver svolto le operazioni di vestizione e svestizione al di fuori dell’orario di lavoro formalmente registrato. Questo significa che, per ottenere il pagamento di un’indennità aggiuntiva, l’infermiere deve provare che tali attività si sono svolte prima della timbratura in entrata e dopo quella in uscita, superando la presunzione che il tempo necessario a tali operazioni sia già compreso nell’orario di lavoro retribuito. La decisione si basa sull’interpretazione dell’art. 27 del CCNL Sanità 2016-2018 e richiama precedenti orientamenti giurisprudenziali in materia, ponendo l’accento sull’onere probatorio a carico del lavoratore.

Demansionamento: Rigetto Appello

Corte di Appello di Bari, sentenza del 22.01.2025, n. 1674

 La Corte d’Appello di Bari rigetta l’appello del lavoratore, confermando la sentenza di primo grado che aveva respinto la sua richiesta di risarcimento danni per demansionamento. La decisione si basa sulla preclusione derivante dal giudicato per il periodo sino al 30.09.2003, durante il quale era stato accertato lo svolgimento di mansioni superiori. Per il periodo successivo, la Corte evidenzia la contraddizione tra la tesi del demansionamento e le precedenti rivendicazioni del lavoratore, che aveva richiesto il riconoscimento di mansioni superiori anche per il periodo successivo al 2003. Inoltre, le risultanze istruttorie non supportano la pretesa del lavoratore.

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